L'upupa
«Dobbiamo abbandonare la carrareccia e risalire nel bosco.» Sofia lo guardò di sbieco e si preparò con tutti i muscoli ad affrontare, sul terreno accidentato, la variazione del dislivello, ma dovette appoggiare entrambe le mani sul pendio per contrastare lo slittamento di una scarpa su un grande masso, parzialmente interrato, che sembrava il carapace di una tartaruga bianca. Non bestemmiò, come si confà a una vera signora, ma emise un profondo sospiro in segno di disappunto. «Come facciamo ora senza le indicazioni?» «Basta seguire i segni verniciati sulla corteccia degli alberi», la rassicurò lui. «Basta essere Pollicino», rispose lei ironicamente. I rumori del fondovalle, oltre il bivio per la Serra delle Gravare, si erano notevolmente attutiti cosicché, nella faggeta, la voce della natura poteva finalmente contare su tutte le sue capacità espressive: il canto degli uccelli appollaiati sui i rami, il ronzio delle api alla ricerca frenetica dei preziosi granelli di polline, finanche il fruscio dei serpenti che fuggono, indispettiti dalla presenza dell’uomo. Dopo circa un’ora di camminata ininterrotta, Francesco, fingendo di allacciarsi le scarpe, fece passare avanti Sofia, che dopo alcuni passi gridò: «La grotta! La grotta!». Di fronte a loro, una cavità bassa e lunga, simile a una bocca scavata nella roccia, da cui fuoriusciva un rigagnolo d’acqua limpidissima. Proprio mentre si era accovacciata per raccogliere il fresco liquido nei palmi incavati e uniti, un suono cupo, «hup-hup-hup», squarciò il silenzio. «Che tipo d’uccello è?» gli chiese Francesco, come per metterla alla prova. «L’unico nome onomatopeico che mi viene in mente è upupa» «Sì. Bravissima! Un maschio in amore, per la precisione.» L’upupa veniva raffigurata dai popoli italici a protezione dei luoghi sacri e quello lo era, sin dall’Età del Bronzo.